venerdì 12 novembre 2021

"Va tutto bene" finché hai fiato e gambe: il mio giovedì sera a Palazzo Brancaccio con Militant A degli Assalti Frontali.

 Ai tempi del lockdown mi ero fatta una promessa: "Tutte le volte che potrai, non fare vincere la stanchezza".

Ieri ho mantenuto l'impegno, Giove Pluvio era stanco pure lui quindi pioveva appena appena e me ne sono andata, dopo il lavoro e una cena a casa super veloce, a Palazzo Brancaccio, per una di quelle occasioni che a me piacciono tantissimo, il primo di quattro incontri con artisti che si raccontano tramite la loro storia e la loro musica. 

Il protagonista di ieri era Luca Mascini, Militant A degli Assalti Frontali.

Tralasciando il fatto che doveva iniziare alle 21 ed è iniziato alle 22 (ma la gente, in settimana, non lavora?), il posto era assolutamente spettacolare, un palazzo nobiliare veramente bellissimo. Il problema era la gente che c'era, che, così a naso, pareva non c'entrare nulla con lui (il fatto che il posto, sulla sua pagina ufficiale, sia indicato come "luxury location" forse qualche indizio me lo doveva dare).

Sembrava di stare in un frame de "La grande bellezza" di Sorrentino ma in salsa indie, con quelli coi cappelli e le scarpe strane in mezzo ai camerieri con le livree bianche (non scherzo... camerieri e Assalti Frontali, boh?): tutti sembravano conoscersi, sorrisoni e grandi pacche sulle spalle, mentre io e quattro-cinque altri spaesati ci chiedevamo quando sarebbe cominciato.

Per fortuna è cominciato veramente, per un'ora e mezza piacevolissima di musica e racconti, anche se la sensazione di essere in un posto che non mi apparteneva per niente, in mezzo a gente che non c'entrava nulla con me, non mi ha abbandonato per tutta la durata dell'incontro (il mio pensiero era: "Fortuna che mi son stirata i capelli, sembro più vecchia ma almeno sembro meno 'na scappata de casa").

Luca Mascini è bravissimo a raccontare: dopo lo spettacolo che aveva fatto per "Attraversamenti multipli", in strada al Quadraro con Alessandro Pieravanti de Il Muro del Canto, avevo comprato un suo libro, "Soli contro tutti", per regalarlo. Siccome non mi ero fatta fare il pacchetto e l'incontro con la persona a cui dovevo darlo tardava ad arrivare, mi sono messa a leggerlo io e, sorpresa, me lo sono tenuto, era bellissimo!!! La passione con cui parla della scuola, dei bambini, specie quelli delle fasce più deboli della popolazione, la gioia del suo incontro con Simonetta Salacone, una dirigente illuminata che DAVVERO ha provato a cambiare dal di dentro la scuola italiana mi hanno conquistato. E' finita che ne ho comprato un'altra copia, la persona a cui è destinato riceverà il suo libro ma io, nel frattempo, ho conosciuto una storia bellissima che non sapevo, quella della scuola Iqbal Masih di via Ferraironi.

Ieri sera, uno dei pezzi proposti è stato "Va tutto bene", una canzone del 1999, che forse davvero non sentivo da allora. 

Ho ripensato a Luca, il mio ex che amava gli Assalti e che avrei incontrato un anno dopo, e ai versi "conosco l'abbandono, la morte di un amante e ogni volta è una violenza, ogni volta che saprò di te farò i conti anche con la mia esistenza". Non potevo saperlo, allora, ma quelle parole sono state profetiche e quella che avrebbe conosciuto l'abbandono e tutto il resto sarei stata io.

Militant A ha parlato di quando ha scritto questo pezzo, in casa di un'amica all'ottavo piano di un palazzo di Colli Aniene, e di come ancora oggi, a distanza di oltre vent'anni, qualcuno per strada lo riconosca e lo ringrazi per avere scritto questa canzone che riprende un concetto cardine di tanti percorsi: bisogna chiudere per poter riaprire, di nuovo e meglio.

E' stato bello (avoja) e lo rifamo (avoja) però, la prossima volta, per favore, in un posto che sia casa.




venerdì 2 luglio 2021

Ricordi, poesie e una sola rosa dura che non basta più.

La storia delle produzioni artistiche di qualsiasi tipo, che siano canzoni, quadri, film, è piena di personalità che definire "disturbate" è eufemistico ma che hanno regalato al mondo bellezza e poesia, in una scissione un po' schizofrenica tra creatore e creatura. 
Ci sono, però, casi in cui la grazia della produzione sembra coincidere a pieno con il cuore e il cervello che l'hanno generata ed uno di questi casi, per me, è incarnato da una cantautrice italiana che amo molto, Cristina Donà. 
Il banco di prova della validità di un artista è da sempre, per me, il live, dimensione mai identica, non replicabile nemmeno nelle registrazioni più all'avanguardia e che mette in comunicazione con meno filtri possibili chi è sul palco e chi gli sta davanti. 
La carriera di Cristina Donà nel mondo della musica inizia nel 1997, col bellissimo album "Tregua" prodotto dal sempre lungimirante Manuelone Agnelli, ma io l'ho vista per la prima volta dal vivo solo nel 2010, quando suonò al Lian Club, che ora ha trovato casa su un barcone ormeggiato sul Tevere ma che, all'epoca, era un locale di San Lorenzo. Ricordo un concerto intensissimo, in cui era talmente palpabile che si stava creando qualcosa di bello e profondo che il locale, circondato da finestroni, era accerchiato da persone che cercavano di rubare qualche nota da quelle aperture e, fidatevi, il quartiere San Lorenzo a Roma, la sera, già all'epoca era un divertimentificio, era ed è difficile far fermare qualcuno che non prevedeva di farlo. 

Ma Cristina sa far fermare. 

Ricordo che, quella sera, ascoltai per la prima volta la canzone "Invisibile", che non conoscevo, e la notte, stesa sul divano della casa che mi ospitava dopo il concerto, ancora ripensavo a quelle note e a quelle parole: "Invisibile come sempre... quando è tardi per dire che non sopravvivo". 




Sentirsi invisibili, sentire di non valere niente quando la persona che ami nemmeno ti vede... non credo conterei molte mani alzate se chiedessi chi non ha mai provato questa sensazione e no, non succede solo in adolescenza. "Invisibile o, forse, è solo una mia immagine..." 
Anni dopo, nel 2011, al firmacopie di un album che ha un titolo che per me è un autentico manifesto di vita, "Torno a casa piedi", vincendo la mia proverbiale paura dell'accollo mi avvicinai a Cristina per farle firmare la mia copia del disco e le dissi: "Sai, Cristina, io in questo periodo ho due ascolti fissi: il tuo album "Dove sei tu" e "L'amore non è bello" di Dente". L'ascolto di Dente ormai l'ho abbandonato ma con quell'album, che era uscito nel 2009, ero in fissa totale. "Dove sei tu", invece, è il disco che contiene "Invisibile". Contiene anche molto altro, ovviamente, ma io ero legata a quella canzone. Ricordo ancora lo sguardo dolcissimo e materno di Cristina mentre mi disse: "Bellissimo, il disco di Dente, ma ascolta anche cose più allegre, mi raccomando". Me lo disse guardandomi VERAMENTE, con partecipazione sincera, mi sembrò come se sentisse il mio dolore. Ci mancava che ci mettesse vicino un "fija mia" - improbabile perché non è romana - ed eccallà, mi sarei sentita adottata in venti secondi. 



Sono passati, da allora, ben dieci anni, ho seguito la carriera di Cristina Donà e i suoi live ovunque fosse possibile: a Roma, a Milano, l'anno scorso col progetto "Seasongs" pure a San Benedetto del Tronto, in una serata in cui faceva talmente freddo che, con l'amica con cui ero, abbiamo cercato un bar lungo il corso di San Benedetto, pieno di gente col cocktail in mano, per prenderci un cappuccino caldo. 
Era luglio. 
Ricordo che Cristina scrisse sulla sua pagina fb "Avevo paura vi steste annoiando e ve ne steste andando, solo dopo ho capito che tanti cercavano solo un posto per ascoltarsi il concerto più riparati dal freddo". Il suo album "Così vicini" è uscito nell'autunno del 2014, quando ho scoperto quasi per caso che la persona che è stata il grande amore della mia vita, con cui ero stata per sette anni e di cui, nonostante l'epoca social, avevo perso completamente i contatti, era morta un anno prima, a 37 anni. Ascoltavo Cristina cantare "La mente mia ritorna a quegli occhi bambini, a giorni liberi così felici e noi così vicini..."e mi sembrava di avere un'amica lontana che, invece di porgermi un fazzoletto, mi porgeva una canzone che serviva a liberare la malinconia per i ricordi di una storia che sembra fatta per un libro. 



Quest'anno Cristina e il suo gruppo di lavoro, per aiutare a finanziare il nuovo album "De-sidera", hanno messo su un crowdfunding che è andato benissimo e ha superato davvero di tanto la cifra posta come primo traguardo. Io ho pensato: "Ok il cd ma lei mi ha dato tanto in questi anni... come faccio a ringraziarla in una maniera un po' più speciale?" 
Tra le ricompense per i partecipanti al crowdfunding ce n'era una che mi aveva colpito più di tutte: Cristina avrebbe inviato una poesia originale per chi l'avesse acquistata. Io sono una poràccia con un lavoro poràccio ma mi ha preso lo spirito del mecenate e mi son detta: "E' il mio compleanno (era aprile), mi faccio un regalo" e ho inviato la richiesta, con gli estremi del bonifico e un messaggio di lode per la bella iniziativa. Qualche tempo dopo TADAAAN mi scrive Cristina Donà e mi dice: "Ho qualche poesia che conservo ma, se mi dai una traccia, ne scriverò una che tu possa sentire proprio tua". Sorpresissima, le ho scritto di getto: "Un tema che sento tanto mio sono i ricordi" e poi, qualche tempo dopo, un ricordo gliel'ho inviato veramente. 
Le ho parlato di una canzone non sua ma che lei ha interpretato con l'autore, Marco Parente. Questa canzone si chiama "Senza voltarsi" e mi è particolarmente cara perché, in un lungo percorso di psicoterapia in cui sembra di scavare in un pozzo senza fondo nel tentativo di arrivare ad una vena di acqua "buona", anni fa la psicoterapeuta, sapendo del mio amore infinito per la musica e di quanto mi serva a darmi le parole che da sola non so trovare, mi disse: "Portami un pezzo che racconti qualcosa di te" e io le portai "Senza voltarsi". 
In particolare c'era un verso che racchiudeva, e un po' racchiude ancora, il mio mondo: "E dove è la notte in cui sogno di credere che una sola rosa dura mi possa bastare e mezzo illuso e mezzo no spacco in due la mia testa di ananas a pensieri duri". 
Una rosa dura che sogno di convincermi vada bene ma io lo so che è dura, io lo so che è sfiorita e non basta più... la mia testa di ananas, ridicola, buffa, fatta di pensieri duri, duri perché testardi, difficili da sradicare, duri perché se la rosa che hai imparato a conoscere non è tenera, i pensieri che genererai saranno duri come lei... 



Un paio di settimane fa è arrivata la poesia di Cristina e si intitola "A proposito dei ricordi". 

Eccola. 





Grazie Cristina, grazie di cuore. La mia rosa ha le spine, come tutte, ma è anche grazie alla tua musica e alla gentilezza che mi trasmetti che sto imparando ad aspirarne il profumo senza farmi ferire ma nutrendomi della sua bellezza.
"Quell'inchiostro cantato che spera di essere reale" oggi è un pochino più vicino.

sabato 12 giugno 2021

Tra miracoli e cose normali, di come trovai un modo per dire a Vasco Brondi: "Ti seguo da sempre".

Mi piace immaginare che, nella vita di molti di noi, esista l'incontro con le opere di un artista - che sia un cantante coi suoi pezzi, un regista coi film che gira o un attore coi ruoli che interpreta - che ci farà pensare "Sembra che mi conosca". A me è successo con vari autori ma uno che mi è particolarmente caro è Vasco Brondi perché davvero, come se fossi una mamma, potrei dirgli orgogliosamente: "Ti ho visto crescere". La prima volta che l'ho visto credo fosse il 2007 o il 2008. Lo intervistava in un suo programma la sua concittadina, come lui ferrarese, Daria Bignardi e mi colpirono la sua voce particolare, a tratti monocorde a tratti super espressiva. All'epoca si faceva chiamare "Le luci della centrale elettrica" - come se fosse un gruppo anche se era da solo - ed era un giovanissimo cicciottello con delle improbabili basette alla Frodo de "Il signore degli anelli" e occhi bellissimi con un taglio particolare. Di lui si diceva fosse il nuovo Rino Gaetano. Non so perché, visto che con Rino Gaetano non c'entra e non c'entrava veramente nulla. Nel frattempo, era l'epoca d'oro dei blog ed io ne seguivo uno, che si chiamava "Proteggimi dalle canzoni inutili". Si capiva che lo scriveva un uomo, presumibilmente giovane, e mi piaceva lo stile, mi piacevano i contenuti, mi piaceva come mischiava citazioni e pensieri suoi personali. Ne riporto un pezzetto come esempio: "Ti ricordi delle sportellate sul cuore? Non dico tanto ma un messaggio ieri credevo di meritarmelo, mah. Penso che delegherò ai piccioni la soddisfazione di cagare sorvolando la tua persona. Quando scongeleremo i silenzi ci sarà da divertirsi, che come dice De Gregori: bene, se mi dici che ci trovi anche dei fiori in questa storia, sono tuoi". Vi chiederete: "Come te lo ritrovi, tu, un pezzetto di un blog che veniva scritto nel 2009?" Semplice: ero andata talmente in fissa, mi piaceva così tanto che, mentre lo leggevo, me ne copiavo dei pezzi su un file che ho poi stampato prima che si perdesse in qualche hard-disk e che ho conservato per tutti questi anni in una cartellina, da buona accumulatrice seriale di ricordi emozionanti. Uscirono il primo disco, "Canzoni da spiaggia deturpata" - quello con la bellissima copertina disegnata da Gipi quando era meno famoso di adesso - e il primo libro, "Cosa racconteremo di questi cazzo di anni zero". Comprai il libro il 13 ottobre 2009: me lo segnai perché era il suo primo giorno di uscita nelle librerie e il giorno di uscita per me da una psicoterapia che, con altri modi e altri tempi, avrei dovuto riprendere ma, all'epoca, la coincidenza tra le due uscite mi sembrò interessante.
Leggendolo, ascoltando il disco che per me era DEVASTANTE per quanto era intenso, arrabbiato, malinconico, cominciai a pensare che "Le luci della centrale elettrica" e quel blog che mi piaceva così tanto avessero qualcosa in comune. All'epoca, ero innamorata non ricambiata - una storia che si è ripetuta svariate volte nella mia vita e la psicoterapia mi è servita solo a capire perché ma non ad evitarlo - e scrissi un racconto come fosse una lettera, ovviamente inedito, su questa mia frustrazione. Sono andata a ripescarlo perché in mezzo ci avevo messo pure una canzone di quel primo album, "La lotta armata al bar".
Scrivevo, rivolgendomi a questo amore non ricambiato: "Ti ho pensato MILLE VOLTE ascoltando Vasco Brondi, le prime volte (c'è traccia pure sul diario) nel 2009. Ho sempre pensato che ti sarebbe piaciuto da pazzi. Capisco che hai cominciato ad ascoltarlo con qualcun'altra, pubblichi "La lotta armata al bar" sul wall di facebook. Riesco a scriverti un commento simpatico ma mi sento tradita, mi fa una gran tristezza che tu sia arrivato a conoscere questi pezzi attraverso un'altra che non sono io". Come avessi capito che 'sto tizio ascoltava Brondi perché glielo proponeva una lei è cosa che si perde nei meandri della memoria ma, a rileggere ora quelle righe, rivedo con tenerezza il melodramma di una non-relazione che mi sono trascinata PER ANNI e che davvero, a volte, penso si meriterebbe un racconto. Vasco Brondi è andato avanti col progetto "Le luci" ancora per molto tempo, fino a che ha deciso che era ora di lasciare gli pseudonimi e provare ad essere, semplicemente, se stesso a partire dal nome. E' stato il primo artista, come mi piace raccontare spesso, che mi ha fatto scattare la molla del "meglio un concerto da soli che nessun concerto" e che sono andata a vedere dal vivo OVUNQUE fosse possibile: al Palazzo delle Esposizioni impegnato in una lettura su Pier Vittorio Tondelli, dove eravamo in pochissimi perché in pochissimi lo conoscevano, alla Casa del Jazz in una serata in cui suonavano lui e Brunori SaS, al Palladium, al Circolo degli Artisti, al Black Out attraversando Roma piena di neve, all'Auditorium dove per la prima volta gli sentii coverizzare "Oceano di gomma" degli Afterhours, non me lo aspettavo e mi misi a piangere in mezzo agli sconosciuti mentre lui urlava nel microfono "Sembra che ti culli ma poi ti vuole ingoiare" e io pensavo al tizio del mio racconto, al Monk tutti seduti sui divanetti con la voce iniziale in filodiffusione che ci diceva che sarebbe stato come fare un viaggio aereo, a Prato in trasferta per una indimenticabile serata in cui suonava con la sua band prima degli Afterhours, al Palacisalfa pieno di ragazzine venute in minicar innamorate di lui - che nel frattempo è diventato proprio un bel figliuolo - dove si sentiva gridare fortissimo "Vasco Vasco" e lo sentiva pure lui, che ha fatto finire questo ricordo in "Chakra", una delle sue canzoni a cui sono più legata. Di "Chakra" ricordo che la sentii a mezzanotte esatta nel giorno in cui uscì il disco in cui è contenuta, "Terra". Ero di ritorno da un concerto di Carmen Consoli dall'Auditorium, camminavo da sola per via del Corso illuminata a giorno in direzione del notturno che mi avrebbe riportata a quella che, allora, era casa mia e mi ricordai che il disco era uscito da pochi minuti. Su Spotify feci partire l'album in selezione random e la prima canzone che ascoltai fu "Chakra". Mi fermai dal camminare per ascoltarla meglio, era troppo bella e aveva bisogno di tutta la mia attenzione.
Da quell'album altro tempo è passato, Vasco è cresciuto e io sono invecchiata ma ancora la sua musica mi fa compagnia ora come ai tempi in cui chiedeva a qualcuno "portami a bere dalle pozzanghere". Il suo disco nuovo si chiama "Paesaggio dopo la battaglia", ha una bellissima copertina (le copertine dei suoi lavori son tutte bellissime, ha una sua bellezza inquietante pure quella del secondo album "Per ora noi la chiameremo felicità", che però è l'unico che non ho mai comprato) che è una foto di Luigi Ghirri, fotografo a lui sempre caro di cui, tra gli altri, parlò in una splendida serata di sette anni fa al Macro Testaccio intitolata "Cronache Emiliane".
In questo disco ultimo, il Vasco grande sembra dialogare col Vasco ragazzo degli esordi, con la stessa malinconia e gli stessi dèmoni ma molti più strumenti per affrontarli ed è questo che mi affascina tanto del suo percorso: riconoscere i mostri dentro e fuori di noi ma imparare a non averne paura, combatterli quando è possibile, conviverci percependoli come meno aggressivi quando non se ne può fare a meno. Ieri, dopo la serata al Maxxi in cui è stato intervistato sul suo disco e ha suonato quattro brani ("Città aperta", "Due animali in una stanza", "Il sentiero degli dei" e, fuoriprogramma dalla scaletta, "Coprifuoco") accompagnato alle tastiere da Andrea Pesce, ho pesato il cuore con entrambe le mani, per dirla con Carmen Consoli e l'amato Tizianone Ferro, e mi sono avvicinata a lui per il firmacopie. Avevo, sì, il disco col libro che lo accompagna ma anche una cartellina di plastica azzurra con delle pagine stampate. "Vasco, ti devo chiedere una cosa... ma tu, anni fa, avevi un blog che si chiamava "Proteggimi dalle canzoni inutili"? Un blog con lo sfondo nero... queste cose su questi fogli le hai scritte tu?" I suoi occhi belli, di un colore che io ricordo verde e che, invece, tutti mi dicono essere azzurri o blu, che sembravano non scocciati ma sicuramente desiderosi di essere altrove, mi hanno guardato per un momento come credo John Lennon abbia guardato Mark Chapman un attimo prima che gli sparasse. Non lo so, io ho avuto questa sensazione. Mi ha detto "Sì, lo scrivevo io", "Grazie, Vasco, allora ci vediamo - ci vediamo, vabbè, per dire - a Villa Ada il sei luglio". Durante l'intervista aveva detto che certi monaci meditano in cerchio in silenzio e sanno che possono rompere quel silenzio solo se hanno da dire cose che fanno tremare la voce. Vasco, ho dimenticato di dirti che a me, le tue canzoni, fanno tremare la voce.

martedì 11 maggio 2021

Lasciami il piacere di sognare per due ore: il ritorno in sala de "Il favoloso mondo di Amélie".

Qualcuno si sta affrettando (buon ultimo, un articolo che ho letto oggi su "Rolling Stone Italia") a dirci quanto trovi patetico e odioso il personaggio di Amélie Poulain, protagonista della pellicola-culto "Il favoloso mondo di Amélie". Per me, invece, chiudermi oggi pomeriggio in una sala, a recuperare questo film - che trovo sia un piccolo capolavoro - uscito vent'anni fa, è stato davvero uno dei piaceri della vita, come per Amélie sarebbe stato rompere la crosta della creme brulèe con la punta del cucchiaino o ficcare la mano nel sacco dei legumi.
La colonna sonora magnifica di Yann Tiersen, il colore, gli ambienti, i costumi senza tempo... i dialoghi, i personaggi indimenticabili... al centro, la storia di una ragazza che non ha mai imparato a dare spazio ai suoi desideri più autentici e a lanciarsi per realizzarli ma, impaziente di dare un senso alla sua vita, inizia con l'aiutare gli altri a realizzare i loro, di desideri, per esempio aiutandoli a fare pace col passato (il momento del ritrovamento della scatola dei tesori del bambino di un tempo riesce a farmi piangere esattamente come vent'anni fa). Succede, però, che "se un sogno si attacca come una colla all'anima", come avrebbero cantato gli Afterhours molti anni dopo, prima o poi ci dovrai fare i conti, pena un insopprimibile, perenne peso nel cuore e Amélie capisce fin dal primo incontro con Nino che il suo sogno è lui. Non sarà facile, per Amélie, perché, per paura di essere delusa, fin da piccola, quando non le era permesso di giocare con gli altri bambini e lei suppliva creandosi amici immaginari, è più abituata a confrontarsi coi castelli in aria che con la realtà ma lei non ha scelto Nino a caso: lei ha scelto Nino perché Nino parla la sua stessa lingua, Nino la può capire, non scapperà. E infatti.
All'epoca della sua uscita in sala, io ero giovane e ancora nella fase "tigre dai denti a sciabola": dovevo sempre e ad ogni costo dimostrare di non essere una donna fragile e non lo andai a vedere perché pensavo, per partito preso, che fosse un insopportabile polpettone. Poi, ben due persone che mi conoscono bene mi dissero: "DEVI vederlo, è proprio un film per te" (probabilmente avevano capito di me molte più cose di quante non ne avessi capito io di me stessa). Da allora, credo di averlo visto, senza esagerare, almeno trenta volte, ventinove delle quali da sola. E allora, a chi sta trovando questo ritorno in sala (ancora per domani, a Roma lo danno al Giulio Cesare e all'Eurcine) terribilmente "cringe", come direbbero i giovani o chi si sente tale, io rispondo con le parole di "Giudizi Universali" di Samuele Bersani: "Togli la ragione e lasciami sognare, lasciami sognare in pace."

sabato 20 marzo 2021

Cercando la propria voce.

E' durissima, per chi ha sempre tollerato un lavoro che non ama perché gli consentiva di finanziare le sue passioni, quando è rimasto solo il lavoro senza le passioni. Il mio tempo lavorativo pienissimo versus il mio tempo libero vuotissimo di tutto quello che amo mi hanno lasciato comunque la curiosità di scoprire cose che accendono la mia attenzione che, in questo momento, è molto rivolta alla musica (come sempre) e al mondo dei giovani e giovanissimi, forse perché sento come fosse mia la loro sofferenza ed inquietudine, tutte quelle gite saltate, concerti cancellati, baci non dati, persone che non riesci più ad incontrare. Ieri sono usciti due dischi nuovi, fatti da giovanissimi e, si presume, per i giovanissimi. Io, anche se vado per i 47, li ho ascoltati tutti e due. Il primo, "Teatro d'ira vol. 1" dei Maneskin, al primo ascolto è pura plastica in salsa rock semplice semplice. I testi sono banalissimi e a volte fanno pure un po' ridere, davvero ti viene in mente Roberto Freak Antoni quando cantava "Sono un ribelle, mamma" con gli Skiantos. La musica... che dire... magari avrà il merito di avvicinare ad un genere che ha MOLTISSIMO di meglio da offrire un po' di persone che nella vita han sempre ascoltato altro. Loro sono simpatici nella loro sfrontatezza e bellissimi, speriamo che la fabbrica di plastica di cui parlava Gianluca Grignani in una bella, lontanissima canzone, non li inghiotta e risputi. Il secondo disco è "Madame" dell'omonima artista vicentina di diciannove anni che già tantissimo mi aveva colpita a Sanremo. Lei mi è piaciuta da subito, ho sentito che, lì dove le critiche la massacravano dicendo, tra le altre cose, "Non si capisce un cazzo quando canta", c'era invece la sua forza. E' vero, in alcuni punti storpia e distorce ma, nel magma della confusione, emergono delle immagini potentissime, che non possono non colpire, come "quel bosco di me" di cui canta in "Voce", il pezzo di Sanremo. A voi, la vostra vita interiore non è mai sembrata quella "selva oscura" di cui parlava Dante nella Divina Commedia? Non vi è mai sembrato di avere dei rami intricatissimi dentro, attraverso i quali è difficilissimo vedere se da qualche altra parte c'è luce? A me sì. Madame - Francesca nella vita privata - si è fatta intervistare per "Sette", l'inserto del Corriere della Sera, dalla scrittrice Teresa Ciabatti, di cui in passato ho letto tre libri bellissimi e feroci, in cui parla di infanzia e famiglia in una maniera originalissima, spietata, divertente, malinconica. Chissà se Madame ha letto i libri della Ciabatti o se la Ciabatti, prima dell'intervista, aveva ascoltato in anteprima il disco di Madame. Io vi dico solo che, al di là dell'odioso autotune e delle espressioni da ragazza cattiva, c'è un mondo veramente interessante dentro questo disco. Un pezzo, in particolare, mi ha colpito tanto. E' la undicesima traccia di quindici, si chiama "Mami Papi" e si apre con la voce di Francesca che fa la parte di sua madre (o forse hanno tutte e due la stessa voce, chi lo sa). Quando canta al padre "Papi, cantami un po' di Faber, anch'io voglio scrivere, dimmi che l'amore esiste anche per me, dimmi che i porno non mi hanno rovinato il cervello, dimmi che vi siete amati quanto amate me, dimmi che un errore è sempre perdonabile... Dimmi che sono più grande del tuo ego, dimmi che ti ho fatto crescere, dimmi delle figlie delle amiche, io non son di meno" a me si stringe proprio il cuore e avrei tanta voglia di abbracciare questa ragazza che potrebbe essere mia figlia o mia nipote o me stessa a quell'età. Voi a diciannove anni avreste saputo comunicare con questa lucidità? Io non ci riesco nemmeno quasi trent'anni dopo, qualcuno, probabilmente, non ci riuscirà mai ma sarà bello se una canzone lo aiuterà perché, se dai un nome alle cose, a fatti, pensieri, stati d'animo, quelle cose le conosci un po' di più e. forse, fanno un po' meno paura.