sabato 2 aprile 2022

Al tuo libro farei fare il giro delle scuole: ho letto la biografia di Mark Lanegan.

Ieri sera era l'una di notte quando ho finito di leggere "Sing backwards and weep", la biografia di Mark Lanegan, 369 pagine che fanno impallidire "Trainspotting" (il film di Danny Boyle, perché il libro di Irvine Welsh non l'ho mai letto).


Ci ho messo 11 giorni a terminarlo e, considerato che, nel frattempo, mi toccava lavorare dalle cinque alle undici ore al giorno e fare tutto il resto, potete capire quanto lo abbia trovato coinvolgente.

E' un libro pazzesco, racconta vicende incredibili e, credo, tutte assolutamente vere, visto che, di ogni particolare che ho cercato in rete, ho trovato riscontro, persino dei pantaloni di pelle comprati da Mark per partecipare ad un programma televisivo nel '96 perché gli avevano perso la valigia in aeroporto e che poi lui ha indossato per mesi perché era l'unico paio che gli rimaneva, visto che aveva perso casa e viveva per strada, dormendo in un boschetto tipo bosco dei tossici di Rogoredo, raccogliendo cicche buttate a terra e spacciando crack ed eroina per potere, a sua volta, fumare o bucarsi.


Di sé racconta che era una "bestia da tossicodipendenza", raggiungeva in brevissimo tempo l'assuefazione e doveva di continuo aumentare la dose. 

Considerato che la droga costa, specie se assunta in grandi quantità, e lui non è mai stato una superstar ai livelli di Kurt Cobain, si capisce come possa essere arrivato al degrado più totale.

Il suo racconto dell'amore che provava per l'eroina è sconvolgente, tanto quanto il fatto che ricorda di aver imparato a suonare la chitarra su un libro per accordi e di aver iniziato a comporre completamente a caso.

Bolla i dischi con gli Screaming Trees, il suo primo gruppo, quasi sempre come schifezze, quando invece, a riascoltarli oggi, hanno un piglio davvero notevole.

Aveva un demone dentro e si vedeva, ecco, forse, perché mi colpì così tanto quella sera piovosa del 2012 in cui lo vidi per la prima volta all'Orion. 

Non sapevo quasi nulla di lui ma aveva una potenza, pur nell'immobilità che manteneva sul palco e che Nick Cave ha descritto meravigliosamente nel suo ricordo di lui, che deflagrava come una bomba fino a chi lo guardava e lo portava dentro quel mondo pieno di ombra.

Uno dirà: "Sì ma cosa c'è di bello in 369 pagine che raccontano la vita di un drogato all'ultimo stadio?"

Io vi dico che ci sono tante cose sorprendenti, che in alcune pagine ci sono una tenerezza profonda ed un'ironia travolgente, che non c'è mai autocompiacimento. 

Mark Lanegan ha scritto delle canzoni bellissime e fa sembrare siano nate per caso ma non è così.

Le pagine più cariche di emozione sono quelle in cui parla di Kurt Cobain e, soprattutto, di Layne Staley e trovo vergognoso che, quando è uscita la traduzione del libro, sui siti di musica si sia parlato quasi esclusivamente delle poche pagine in cui viene raccontato il litigio con Liam Gallagher.

Non sarò mai abbastanza grata ai lettori della pagina fb di "Rumore​", quando, molto prima che Lanegan morisse, in un commento chiesi: "Ma vale la pena comprare 'sto libro o è solo un'accozzaglia di stupidi gossip?" e il 90% di quelli che mi risposero scrisse: "Compralo, è una lettura incredibile".

Lanegan scrive che Kurt Cobain era stato come un fratello minore, per il quale aveva il rimpianto di aver fatto cose balorde tipo comprargli eroina quando era troppo famoso per andarsela a raccattare da solo per strada, ma Layne Staley era un gemello, uno in cui rivedeva se stesso ma migliore, geniale. L'amico geniale.

Fra tre giorni ricorrerà il ventennale della morte di Layne, una delle morti più tristi che la storia della musica ricordi.

Fu trovato in casa sua dopo giorni, vittima di un'overdose, col corpo già in decomposizione. 

Nessuno lo cercava più e anche la madre, che ogni tanto provava a telefonargli, si era abituata a non sentirsi rispondere e a non essere richiamata, quindi non aveva pensato subito al peggio.

Era stato uno dei migliori sulla scena rock degli anni '90 ed era finito con denti mancanti, magro come uno scheletro, a bucarsi e a giocare ai videogiochi tutto il giorno con le tapparelle di casa abbassate.

Esattamente come ricordo dov'ero e cosa facevo il giorno in cui è morto Kurt Cobain, ricordo benissimo dov'ero e cosa facevo quando ho saputo della notizia dell morte di Layne Staley. Quella era la mia generazione, la voce della mia giovinezza ed è andata via nel modo peggiore. 

Ecco, forse, perché la morte di Mark Lanegan mi ha colpito così tanto: era un sopravvissuto, era uno che ci diceva "Non è ancora finita" e invece.

Neanche due anni fa è stato girato un video in cui Lanegan canta "Nutshell", una delle canzoni più iconiche degli Alice in Chains, il gruppo di Layne.

Dopo la lettura della biografia di Lanegan - che si conclude proprio con l'arrivo della notizia della morte di Layne nel 2002, mentre si stava ripulendo dalle droghe in rehab, senza sapere che ancora e ancora ci sarebbe cascato - la potenza di questo video appare ancora più devastante.


La steel guitar sembra che pianga e quando Mark canta le parole di Layne: "If I can't be my own, I'd feel better dead", "Se non posso essere me stesso, preferisco morire" e accenna con pudore un bacio tra il cielo e - per dirla con Vasco Brondi - "il posto convenzionale del cuore", io sento tanto di quel dolore, tanta di quell'autenticità che mi commuovo fino alle lacrime. 

Riposa in pace, Mark, dovunque si sia posato il tuo spirito.

Al tuo libro farei fare il giro delle scuole perché si impara più da mezzo grammo di verità che da un quintale di moralismo.