giovedì 15 novembre 2018

"... e brillano le insegne che hanno perso delle lettere" (aspettando il 23 novembre all'Auditorium)

E' difficile spiegare perché mi piace così tanto, da sempre - da quando lui aveva poco più di vent'anni ed io poco più di trenta - Vasco Brondi, che ancora per un po' si chiamerà LE LUCI DELLA CENTRALE ELETTRICA e poi diventerà qualcos'altro, forse semplicemente se stesso senza nessuna maschera.
Lui è uno che - come ha scritto Giorgio Canali che gli produsse il primo disco, "Canzoni da spiaggia deturpata", quello con la copertina bellissima disegnata da Gipi - "se ti piace, ti piace con le sue imperfezioni che sono di natura: scrive da dio, canta di merda, suona ancora peggio però è Vasco​".



Per lui sono andata al mio primo concerto completamente da sola, nel 2008 al Circolo degli Artisti, provando quel senso di "immenso smarrimento, immensa libertà", per dirla con le sue parole, che poi avrei riassaporato tante altre volte ma che allora ancora non conoscevo perché ne avevo paura.
Per la sua reinterpretazione di "Oceano di gomma" degli Afterhours, arrivata a tradimento - mentre non me l'aspettavo assolutamente anche se sapevo del suo amore per il gruppo dell'Agnellone nazionale - la prima volta che ha suonato all'Auditorium Parco della Musica, nel novembre del 2010, mentre io ero impelagata in uno degli innamoramenti non corrisposti più desolanti della mia vita, ho pianto senza ritegno seduta in mezzo a sconosciuti, mentre lui cantava "Tu per me sei vero anche se sei solo pensiero"ed io ero conscia del fatto che sentirsi vivi è ANCHE questo (per fortuna, NON SOLO).



Me lo ricordo giovanissimo e un po' cicciottello, nel 2009, arrivare con uno zainetto tipo scuola al Palazzo delle Esposizioni, per leggere Pier Vittorio Tondelli e suonare urlando le sue primissime canzoni come "Piromani", lasciandomi senza parole. Aveva un'intensità incredibile ed io ho sempre amato Tondelli, da quando l'ho scoperto all'Università perché lo citavano Enrico Brizzi in "Jack Frusciante è uscito dal gruppo" e Giuseppe Culicchia in "Tutti giù per terra", due libri che, per molti di coloro che hanno attraversato i vent'anni negli anni '90, sono stati un po' una bibbia.
Adesso il progetto "Le Luci della Centrale Elettrica" si chiude ed io sono emozionata e felice di salutare questa fine che sarà anche un nuovo inizio, a dir la verità cominciato già un paio di album fa.
Cantava la provincia depressa, Vasco, cantava uno star male che veniva dal profondo e che me lo ha sempre fatto sentire vicino. Mi succede solo con lui e con Francesco Motta: tra i cantautori con meno di 35 anni, secondo me son gli unici che possono parlare veramente A TUTTI, non "generazionali" ma "universali", almeno per universi come quello in cui vivo io.
Son passati gli anni e Vasco è cambiato: non è diventato un allegrone, chiaro, ma ha capito che col nichilismo non vai da nessuna parte e, se ti va bene, ti ammazzi e finisci per essere ricordato come un mito alla "muor giovane chi è caro agli dei". Se ti va male, manco quello: muori e basta, cibo per vermi.
Sarà bello essere lì ad aumentare la quota dei fan attempati e sgolarsi a cantare: "Ci sarò io e arriverò felice da fare schifo e libererò tutti i tuoi pianti trattenuti".


Anch'io voglio essere felice da fare schifo, Vasco. Non siamo nati per essere tristi, anche quelli di noi che in tanti momenti hanno sentito di non avere un'altra scelta. Se dopo dieci ore di un lavoro che detesto sono qui, al mio tavolino rosso, nella casa che ho tanto desiderato abitare, a fare una delle cose che amo di più al mondo - scrivere - la strada è quella buona.
E, se vai in una città a 40 chilometri, ricordati di mandarci una cartolina per dirci che stai bene anche lì.


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