venerdì 16 agosto 2019

Cosa conta davvero: la mia seconda volta a Budapest (e allo Sziget).

"E qualcosa rimane tra le pagine chiare e le pagine scure...": questo canticchiavo nella mia testa ieri, giorno di ferragosto, mentre percorrevo tirandomi dietro il trolley le strade deserte e assolate di quello che da un anno esatto è il mio nuovo quartiere.
De Gregori e una delle canzoni più belle della storia della musica italiana c'entrano per quel senso di dolce malinconia che ti lasciano la fine di ogni viaggio e tutti i ricordi che le si legheranno.
Quattro anni fa tornavo in un'altra casa, sicuramente meno amata dell'attuale, di ritorno dalla stessa meta: Budapest.
La malinconia era la stessa, quello che è cambiato è che adesso credo a qualche miracolo in più e, vi garantisco, per una persona diffidente come me credere in qualcosa è esso stesso un miracolo.
Ora credo che si possa affrontare l'ansia di partire con persone conosciute poco o per nulla e trovarsi benissimo, credo che si possa tornare in posti che ci sono rimasti nel cuore anche se le possibilità di farlo sembravano infinitesimali... e credo che, anche se tutti i siti di meteo dicono che pioverà, forse non succederà o non succederà quando dicono loro.
Andiamo con ordine: tutto quello che ho scritto quattro anni fa su Budapest vale ancora ma ho trovato la città abbastanza peggiorata per alcuni aspetti. In giro c'è tanta povertà e non di quella dignitosa ma di quella che sconfina nella miseria nera, che ti fa dormire su un cartone per strada di notte, che ti fa fare i bisogni a vista perché sei talmente ubriaco che non ti accorgi che ti vedranno tutti e, quasi certamente, neanche ti interessa.
C'erano anche quattro anni fa, i senzatetto, ma stavolta mi sono sembrati tanti e più disperati. I negozi brutti, carichi di merce altrettanto brutta, si susseguono senza sosta. Merci, merci, merci ovunque. Non abbiamo visto un solo esercizio carino, uno di quelli che ti fa dire: "Dai, entriamo a vedere cosa c'è dentro". No: alcoolici che costano pochissimo ovunque, dolci che trasudano olio di palma già solo a guardarli, vestiti usati, paccottiglia per turisti.
Restano i parchi, polmoni verdi tenuti benissimo, con le panchine di legno tutte intere e le altalene che funzionano (a Roma avrebbero spaccato tutto da tempo e nessuno si sarebbe curato di aggiustare, tanto l'idea è  che viene tutto distrutto di nuovo nel giro di poco), lo splendido Bastione dei Pescatori e la sua vista incredibile, il lungofiume di notte, con tanti giovani seduti a bere e chiacchierare in tranquillità, in un'atmosfera molto amichevole che mi ha ricordato un po' la Darsena di Milano nelle serate meno caotiche, le terme (sempre splendide le Gellert) che riescono a regalare una giornata di relax anche quando sono affollate, perché saranno anche ruvidi nei modi ma, a livello organizzativo, 'sti magiari sono imbattibili.







Veniamo poi al motivo principale che mi ha fatto programmare di vedere, anzi rivedere, la città di Budapest: lo Sziget Festival.
Non pensavo ci sarei mai ritornata: le amiche con cui ero partita l'altra volta, dopo l'esperienza mi avevano detto: "Tu sei pazza" ed io già mi stavo autoconvincendo che non fosse un posto per me, che ormai son vecchia, che devo fare cose più tranquille sennò divento ridicola.
CAZZATE, sono tutte cazzate.
E' bastato partire con altre persone (alle mie amiche voglio sempre tantissimo bene così come loro a me ma faremo altro assieme) e ho avuto la riprova che, sebbene il target di pubblico dello Sziget sia MOLTO più giovane di me, non è che non esistano persone over 40 che amano quell'atmosfera e non sono lì per mettersi i brillantini sul culo (true story, c'erano culi nudi ovunque, alcuni dei quali ricoperti di glitter) ma per costruire nuovi ricordi belli che parlino la lingua che amiamo e capiamo di più, quella della musica di qualità.
Mentre io pensavo a quanto ancora mi si riattiva facile il sogno di conoscere questo fantomatico uomo della vita in un concerto rock e programmare insieme un bellissimo matrimonio vestiti di nero, con le bomboniere di pelle e borchie e i confetti a forma di teschio, in due giorni (perché quest'anno abbiamo addirittura RADDOPPIATO i giorni di presenza) mi sono vista davvero dei bei concerti.
Io ero lì per Florence + The Machine, che si esibiva come headliner il penultimo giorno della rassegna. Lei resta sempre incantevole e amo la sua musica ma se, come dice, vuole prendersi una lunga pausa dai palchi dopo il concerto che farà nell'Acropoli di Atene a settembre, io non posso che esserne contenta perché, se è vero che mi mancherà programmare di andarla a sentire, il rischio che i suoi inviti al Cosmic Love diventino una macchietta è diventato altissimo.



I concerti più belli, in verità, li ho visti l'ultimo giorno del festival (che era il secondo per noi), quello di Johnny Marr, chitarrista degli Smiths, su tutti.
Passato lo straniamento di non udire la voce di Morrissey, è stato fantastico sentirgli cantare durante il suo set un bel po' di canzoni degli Smiths che davvero hanno fatto la storia, tipo "Bigmouth Strikes Again", "This charming man" e "How soon is now" e pure una riuscita cover di "I feel you" dei Depeche Mode. A un certo punto, si è disteso di schiena sul palco e si è messo a suonare la chitarra, guardando in aria a gambe incrociate, come chissà quante volte avrà fatto da giovanissimo mentre si esercitava a diventare il grandissimo musicista che è adesso.
Quando sono partite le note di "There is a light that never goes out", ho pensato che, a venticinque anni di distanza dalla prima volta che lessi "Jack Fusciante è uscito dal gruppo" di Enrico Brizzi, avevo finalmente la possibilità di sentire dal vivo quelle note di cui lo scrittore bolognese scriveva appassionato: "E se un autobus a due piani si schiantasse contro di noi , sarebbe un modo sublime di morire, e se un camion ci uccidesse tutti e due morire al tuo fianco sarebbe un piacere e un onore, per me. E su nastro era ancora niente!". Ah sublimi cazzate dei vent'anni!!! Quanto avevi ragione, Enrico: su nastro era ancora niente.



Dopo Johhny Marr son saliti sul palco i Twenty One Pilots, gruppo tanto amato dai presenti che andavano dai 12 ai 30 anni circa quanto semi-sconosciuto per tutti noi vecchiardi. Hanno un genere poco definibile, energico ma che col rock non c'entra niente. Il batterista in particolare (sul palco sono in due) ha il fascino del giocatore di calcio: belloccio, fisicato, ok che è bravo ma se la crede come pochi quindi per me è NO, rappresenta tutto quello che non mi piace in un uomo e in un musicista. Meglio il cantante, che ricorderò per essersi cambiato il cappello settecento volte in un'ora e mezza di set e per essersi arrampicato a mani nude su una delle torri più alte del palco. Quello è stato un bel momento: non era Eddie Vedder che si dondola dai tralicci del palco al Lollapalooza del '92 ma comunicava comunque una bella idea di libertà. Ai presenti intorno a me è piaciuto tantissimo, tutti cantavano e ballavano mentre io e le persone con cui ero conoscevamo a malapena un paio di pezzi. Non è stato un brutto concerto ma non penso che inizierò a seguirli.
Quando, all'inizio di questo lungo post, ho detto che ho imparato a non dare più di tanto credito al meteo, mi riferivo al fatto che, durante quella ultima giornata di Sziget, OVUNQUE era scritto che ci sarebbero stati forti venti e precipitazioni nel corso della giornata e, in particolare, la sera. "Possibilità di rovesci 100%", dicevano le previsioni, tanto che la mattina gli organizzatori hanno mandato un alert via mail a tutti i partecipanti (il biglietto si compra online, quindi hanno gli indirizzi mail di tutti) e in sovrimpressione sui maxi-schermi, tra un concerto e l'altro, passavano indicazioni sul fatto che avrebbe piovuto forte e bisognava dotarsi di poncho antipioggia e stivali (gli ombrelli non passano ai controlli e, del resto, avete mai provato a vedere un concerto in mezzo a una pletora di ombrelli aperti e gocciolanti?)
Siamo arrivati alle 20.30 e di pioggia neanche l'ombra, anzi, in cielo c'era una splendida luna gialla a cui mancava solo un ultimo spicchio per essere piena. Sono saliti sul palco i Foo Fighters, ultimo gruppo della rassegna, e ci siamo tutti rassicurati: almeno l'inizio è salvo.
Premetto che io non sono una fan dei Foo Fighters: non li disdegno ma non li ho mai neanche seguiti tantissimo, considerandoli semplicemente una buona band di rock da fm ma, dato che il patto da cui era nato questo viaggio, all'indomani di una serata-tributo ai Nirvana, era stato "Io ti accompagno a vedere i Foo Fighters ma tu mi accompagni per Florence", eccomi!
Da subito, il leader Dave Grohl - e con lui tutta la band - si è dimostrato all'altezza di quel palco immenso: bravo, simpatico ma non di quella simpatia costruita a tavolino che ti fa accapponare la pelle bensì di quella autentica, di chi ama comunicare alleggerendo le situazioni. Non deve essere stato facile, per lui, essere il batterista della band più famosa e autenticamente depressa degli anni '90 e i Foo Fighters, nati subito dopo la fine dei Nirvana, sono stati e ancora sono, credo, la sua risposta per dare spazio a una vitalità SANA, che sicuramente gli sarà mancata in quegli anni in cui diventava famosissimo ma a che prezzo...
Quanti momenti da ricordare, in due ore e mezzo di set!
Ne voglio raccontare un po':

  • L'armonia tra i musicisti, in particolare tra Dave e il batterista Taylor Hawkins, 47 anni di figaggine VERA e ciao ciao batterista dei Twenty One Pilots: questo, oltre a suonare la batteria, canta pure "Under Pressure" facendo le voci sia di Bowie che di Freddie Mercury, bravissimo ma senza prendersi troppo sul serio, lo sa che si sta confrontando con un pezzo mitico e che Dave Grohl che torna al suo posto storico, dietro piatti, cassa e rullante, pista duro come sappiamo.



  • Dave Grohl che dice: "Amo il rock'n'roll, amo il mio lavoro" e solo il cielo sa quanto vorrei dire pure io anche la seconda frase!!! 

  • La presentazione al pubblico della figlia Violet tra le coriste, ciocca di capelli verdi e maglietta dei Nirvana, stile un po' alla Billie Eilish... hai avuto culo, Violet, ad avere per padre il Nirvana giusto, quello che aveva voglia di vederti crescere e ritrovarsi un giorno con te sul palco...

  • LA FINE del concerto. Mentre si addensavano in cielo nuvole nere e della bella luna non c'era più traccia, Dave Grohl dice dal palco che vuole finire il concerto con "gli eroi" della serata: un ragazzo in carrozzella che ogni tanto è stato inquadrato sui maxischermi perché i suoi amici, che evidentemente quanto ad eroismo non scherzano manco loro, lo hanno sollevato sulle spalle con tutta la carrozzella, per fargli vedere il concerto bene, in mezzo alla folla e non in "area protetta", e una ragazza, molto semplice e con un viso molto tenero, un po' da Heidi, che soffiava bolle di sapone in prima fila mentre lui cantava. A chi diavolo può venire in mente una cosa del genere durante un concerto rock? Era una cosa talmente dolce e fuori contesto che, evidentemente, Grohl non è rimasto indifferente e l'ha voluta con sé sul palco, a soffiare bolle vicino al batterista mentre il ragazzo in carrozzella probabilmente viveva uno dei momenti più belli e indimenticabili della sua vita, perso in un abbraccio sul palco che mi ha fatto venire gli occhi lucidi, perché l'abbraccio di un sogno è quello che ci meritiamo tutti, se Mother Nature a volte è stata bastarda con noi.


Partono le note di "Everlong", tutti cantiamo, balliamo, volano sguardi che dicono: "Siamo felici, qui, ora" mentre piano piano cominciano a cadere le prime gocce di pioggia. Il concerto finisce, i saluti coi compagni di concerto si fanno veloci e imbocchiamo supersoniche la via del ritorno. 
E' stato bello come un sogno, un altro di quei concerti mitici che racconterò alle mie nipotine sperando che anche loro trovino un Amore VERO, che faccia battere loro il cuore come fa per me la musica.

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