lunedì 14 settembre 2020

"Abbiamo perso, abbiamo stra-perso ma abbiamo ancora la forza per andare avanti": seconda e ultima giornata de "La mia generazione" (Ancona, 13 settembre 2020)

La due giorni anconetana mi ha lasciata contenta, dolcemente malinconica ma completamente senza forze: ho camminato con temperature equatoriali e quella dannata borsa sempre troppo piena cercando di vedere tutto il vedibile, non solo del festival ma della città. Mettici pure 8 ore di treno della speranza e un letto troppo morbido ed ecco che stamattina, quando è suonata la sveglia prima di correre in stazione per tornare a Roma, ero completamente in coma, tanto che mi chiedevo cosa fosse quel suono fastidioso che mi arrivava all'orecchio sprofondata nel letto morbido.

Il festival è stata una gran bella esperienza. Dubito che il direttore artistico Giovanardi possa mai leggere le mie parole ma avrei un appunto migliorativo da fargli: caro Joe, come ti chiamano tutti, splendida idea mettere insieme un cast così vario ma così ricco di qualità, apprezzabile tutto l'impegno - visibilissimo - a far sì che ogni cosa, dai live agli streaming su internet, andasse bene anche in questi tempi in cui è difficile pure organizzare un picnic al parco ma l'anno prossimo NON LA TIRATE PER LE LUNGHE!

Ieri sera siamo stati in teatro dalle 20 a mezzanotte e mezza e, fidati, per degli ultraquarantenni è veramente TROPPO, specie se il giorno dopo è lunedì. Al pòro Ghemon, a cui è toccato chiudere il festival, a momenti serviva un defibrillatore per capire se le persone che ancora non avevano lasciato la sala, ormai già parecchio svuotata di presenze, erano vive o morte. Tranne che per alcuni ragazzi che conoscevano le sue canzoni e si son buttati nella prima fila ormai mezza vuota per fargli sentire un po' di calore. non l'ho invidiato per niente. 

Le tre esibizioni della serata - Capossela, Brunori, Ghemon - erano ben calibrate, ognuna della durata di 45 minuti, ma che senso aveva, tra l'una e l'altra, proiettare su un telo la replica delle interviste del giorno prima, tra l'altro facilmente recuperabili online? Quelli erano i momenti in cui vedevi la sala svuotarsi: chi andava in bagno, chi a fumare, tutti gli altri, nel buio, guardavano gli schermi brillanti dei cellulari. Se proprio si voleva creare un momento di raccordo che consentisse, allo stesso tempo, il cambio palco, si poteva dare più spazio al bravo Massimo Cotto, giornalista musicale che conosce millemila aneddoti accumulati nella sua lunga carriera e che sa come raccontarli piacevolmente.

A parte questo piccolo appunto, la serata è stata super gradevole. Capossela era accompagnato dal bravo Alessandro "Asso" Stefana alla chitarra e ha messo su un set ovviamente più smilzo di quelli a cui ha abituato chi lo segue, fatto di molte parole, che mi ha ricordato le dirette con cui ha tenuto compagnia a tanti di noi, la sera su facebook, durante i giorni del lockdown. Si è chiesto cosa possa aver portato persone come Kerouac, come Jeff Buckley, che sembravano voler prendere la vita a morsi, a fare scelte che li hanno condotti alla tomba. La risposta è un mistero; forse alcuni sono chiamati ad incarnare, in quella fame di vita che hanno manifestato nelle loro opere, le debolezze dell'uomo, a dare corpo e voce anche agli incubi, alla parte oscura, della loro generazione.

Brunori ha scherzato tanto come sempre, ha detto che lo hanno invitato al festival perché credevano fosse del '65 quando, invece, lui è del '77, era felice di essere lì e si vedeva. Accompagnato da moglie ai cori e a strumenti vari e da una violinista, ha suonato con un'energia e un amore grandi che hanno tirato giù un sacco di applausi e a me pure le lacrime, anche se avevo una paura tremenda a soffiarmi il naso perché poi tutti si sarebbero girati verso di me, spaventati della mia produzione di droplet.

Ghemon è bravo, specie quando spinge sul soul, e, per quanto è bravo, fin troppo modesto. So che ha passato dei momenti difficili a livello personale, gli auguro di acchiappare la fama che merita fin da quando conobbi la sua musica grazie a "Ossigeno", la trasmissione Rai dell'impareggiabile Agnellone.


Non c'entra niente con il festival ma vi lascio con un consiglio: se avete tempo, modo e curiosità, non perdetevi la mostra di 300 foto "Letizia Battaglia- storie di strada", all'interno della Mole fino al 15 gennaio 2021. E' talmente bella e appassionante, arricchita da filmati che aiutano a capire meglio la storia di questa donna dallo sguardo straordinario, ultra-ottuagenaria eppure lucidissima, che avrei voluto passarci dentro molto più tempo delle misere due ore concesse dal museo (le impiegate, gentilissime, mi hanno detto che sarei potuta ritornare nel pomeriggio ma avevo troppe cose ancora da vedere e non mi era più di strada).

La mostra si sviluppa non cronologicamente ma per temi, è illuminata splendidamente e, cosa non banale, i pannelli che indicano i titoli delle foto non hanno bisogno dell'egittologo per essere decifrati.

C'è una sala, la chiamerò "la sala delle bambine", che ha dentro un'energia incredibile, si potrebbe rimanere un'ora solo lì, in mezzo a tutti questi occhi che ti guardano e ti raccontano una storia che non saprai mai se è quella vera ma, sicuramente, è quella vera PER TE.



Ha scritto la Battaglia: "Le bambine sono io a cercarle, con molta emozione: quando incontro la ragazzina imbronciata, sulla soglia dell'adolescenza, magra, con le occhiaie, i capelli lisci, sono io. E quando la fotografo è come se facessi un incontro di bambina con bambina". 

Non è emozionante?

Una foto, però, fra tutte, mi ha colpita. Ho sbagliato a non segnarmi il titolo, anche perché non la ritrovo più, io ricordo "La svampata" o "La sfiammata" ma su Google non trovo nulla.

Mi ha ricordato una delle scene che chiudono il secondo episodio de "L'amica geniale": Lenuccia va a trovare Lila, che fa un lavoro modesto in un posto di merda. Lenuccia si è laureata a pieni voti, le pubblicheranno un libro mentre Lila il suo genio lo ha seppellito in una vita grigia e sacrificata. Lenuccia le ha portato, dopo averlo ritrovato tra le carte della maestra Oliviero ormai morta, "La fata blu", il libro che Lila aveva scritto mentre era alle scuole elementari, col sogno di diventare un giorno anche lei una scrittrice, magari come l'amata Luisa May Alcott di "Piccole donne". Lenuccia, nella sua ingenuità e, chissà, forse anche con un po' di sadismo, pensa possa far piacere a Lila riavere il suo libro. Non è così. Lila quel libro lo brucia mentre la sua amica si allontana, ognuna alla vita che ha saputo costruirsi. 


Impossibile non commuoversi di fronte a un sogno che diventa cenere e diventa cenere perché TU lo butti nel fuoco. Letizia Battaglia, in questo, è stata una grande: ha saputo andare OLTRE la vita che gli altri - famiglia d'origine, marito, contesto sociale - si aspettavano da lei e il suo sogno di raccontare è arrivato, sotto forma di foto, fino a noi.



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