sabato 20 giugno 2015

Entrare fuori, uscire dentro: la mia visita al Museo della Mente (S. Maria della Pietà, Roma)

Nelle ultime tre settimane ho trascurato il blog perchè ho fatto una marea di cose, tra cui giornate a Verona, Bologna e Ferrara nel giro di pochissimo (se volete un consiglio su posti dove mangiare bene o da vedere assolutamente al di là degli itinerari turistici "da cartolina", contattatemi... o, al limite, chiedetemi un post appòst :)

Alla fine, però, torno sempre nell'amata-odiata Roma, sempre impegnata nella scoperta e ri-scoperta di angoli, motivi, suggestioni per cui io possa dire a me stessa che è bellissimo stare in questa città così atrocemente faticosa.

Oggi pomeriggio la ri-scoperta è partita da un luogo che avevo visitato già qualche anno fa: il parco del Santa Maria della Pietà, a due passi dalla stazione di Monte Mario. Questo comprensorio è famoso perchè, in un tempo neanche troppo lontano, ha ospitato un manicomio. 

Il suo parco è bellissimo e "spettinato": sarà suggestione ma, complice l'acquazzone che era da poco caduto sulla città, come la prima volta in cui ci misi piede mi è sembrato un posto pieno di energia, inquietante e selvaggia come la natura che gli cresce dentro.


All'interno del parco, sorge il MUSEO LABORATORIO DELLA MENTE, che ospita una mostra permanente curata dai geniali creativi di Studio Azzurro: attraverso un percorso interattivo molto interessante, il visitatore compie un piccolo viaggio in alcuni aspetti della follia e del modo in cui nel passato recente la società le si è interfacciata (anche se confesso di non essere riuscita ad "animare" alcune delle installazioni del percorso, tipo il microfono posto davanti alla ripresa di una bocca. Tu dovevi parlare nel microfono e la bocca muta nello schermo avrebbe dovuto animarsi... avoja a parlà, la bocca nello schermo davanti a me rimaneva zitta -_-)



Questa frase è attribuita a Franco Basaglia ma, se si fa una ricerca su internet, pare che il padre "vero" sia Caetano Veloso e che questo sia il verso tradotto di una sua canzone.

Una delle esigenze che mi è sembrato emergesse più spesso nelle storie delle persone internate è quella di COMUNICARE: stati d'animo, pensieri, idee, sentimenti. Il pannello di cui vedete la foto sopra rappresenta una parte dei graffiti che un paziente del manicomio di Volterra (ex paziente del Santa Maria della Pietà) incise per CENTINAIA DI METRI DI MURO del manicomio usando solo una fibbia.

Una ricostruzione della "fagotteria", poveri involti dove restavano gli averi di chi veniva internato. 
Nella foto si vedono un libro, degli occhiali e, piccola piccola, una foto in bianco e nero di una donna al mare... ho pensato che quella donna, forse, il mare non lo ha visto più, dopo avere consegnato quella foto... mi è venuta una gran voglia di partire, vedere il mare, bermelo con gli occhi e restituirne un pò anche a lei, alla sua memoria, anche se a uno che passa mesi, anni rinchiuso, costretto, nulla e nessuno può restituire il tempo.


Ecco, confesso che riguardando la foto che pubblico qui sopra mi emoziono. L'ho scattata dallo spioncino di una porta che ricostruisce la stanza di un internato, una stanzetta dove ci sono solo un vaso da notte, un brutto letto con le cinghie per legarti se non stai buono ed una finestra che dalle sbarre ti fa vedere un'estate che esplode di luce e di colori e a cui tu non parteciperai. Se c'è l'inferno, io penso che possa avere esattamente questo aspetto.

Questo post è stato scritto ascoltando "Thinking in textures" di Chet Faker ma l'artista a cui ho pensato uscendo dal Museo, quello che aveva capito tutto, era De Andrè (e, prima di lui, Edgar Lee Masters).



Ancora per domani, dalle 9 alle 20, l'ingresso al Museo è gratuito (alle 17, tra l'altro, in una sala proiettano pure il documentario girato durante il tour europeo di Fabi -Gazzè- Silvestri, che non c'entra niente però è carino ed è sempre gratis). Se non ci andate, spero abbiate veramente una valida ragione.



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